Fermiamoci please in religioso silenzio.
Amo l’arte del cinema e dei suoi derivati, come le serie televisive, quando il loro esistere tocca corde interiori che sono relative a tutti gli esseri umani. Intendo dire quelle emozioni e sensazioni che nascono quando si guarda un quadro oppure la cupola di una moschea o la facciata di una chiesa.
Nic Pizzolatto, sceneggiatore di razza, creò dal suo genio la serie True Detective nel 2014. Lo schema narrativo sembrava semplice: due detective affrontavano un caso d’omicidio e durante lo svolgersi delle indagini la storia si allargava all’analisi introspettiva dei protagonisti. Come se il caso da risolvere fosse la scusa per altro. L’indagine vera era nell’animo umano.
La prima serie fu un successo clamoroso. I due detective, Matthew McConaughey e Woody Harrelson (rispettivamente Rustin “Rust” Cohle e Martin “Marty” Hart) portarono la serie a vette molto alte dove soprattutto il personaggio di Rust ci introdusse nei meandri della sua anima disquisendo su psicologia e filosofia e mettendo a nudo l’essere umano che dovrebbe essere in noi.
La seconda, forse con troppi personaggi, non fu all’altezza della prima. Tiepido svolgimento, tiepida risposta. Forse perchè l’aspettativa di tutti era molto alta.
E siamo arrivati ai giorni nostri. Pizzolatto, memore del passato, riporta la serie alle origini e la rende più intima. Anche qui abbiamo due detective, Hays (Mahershala Ali) e Quest (Stephen Dorff), che nello stato dell’Arkansas iniziano ad indagare sulla scomparsa di due fratelli Purcell che lasciarono la loro casa in bicicletta per non tornarvi più. L’ennesimo colpo di genio che rende questa serie un’opera d’arte viene dal fatto che Pizzolatto sviluppa il racconto durante tre anni differenti: 1980, 1990 e 2015 intersecandoli tra di loro. Nodo centrale dell’intero racconto è l’Ispettore Hays che è recitato da un mastodontico Mahershala Ali. Hays, personaggio oscuro e solitario, reduce del Vietnam, che si butta anima e cuore nell’indagine rendendolo talmente personale che diventa una ricerca non solo dei ragazzini scomparsi ma anche di se stesso. Hays nel 1980 è un giovane ispettore che conosce Amelia (la brava e bella Carmen Ejogo) che poi sposerà. Dieci anni dopo Hays ha due figli e siccome l’indagine viene ripresa in quanto mai conclusa, racconta tutto alla moglie che scrive un libro sui fatti. La grandezza di questo bravissimo attore comunque si vede nel personaggio di Hays ormai settantenne e colpito da alzheimer. Ali, truccato magnificamente, ci dona un Hays fragile e vecchio che vive tutta la sua debolezza con sguardi persi e smarriti.
Difficile per me scrivere tutte le sfumature e le storie che fanno parte di queste 8 episodi (produzione HBO trasmessa su Sky Atlantic in Italia) e ancora oggi, dopo aver visto l’episodio finale, le emozioni di questo bellissimo racconto hanno difficoltà a lasciarmi.
Alla fine si comprende tutto dell’indagine, ma nonostante questo lo sguardo smarrito di un uomo perso in una giungla ci rende la grandezza di un’opera che è destinata a lasciare il segno.
La vita alla fine diventa un puzzle dove i pezzi vanno sempre messi nel loro ordine, anche se ne manca qualcuno, e dove ci vuole poco per ritrovare il disegno originale. Succede anche che abbiamo in mano il pezzo più importante, ma ci dimentichiamo dove va messo.
Questa a volte è la grandezza della vita, e grazie a opere come True Detective a volte ce ne ricordiamo.