Ci svegliamo la mattina, ci laviamo i denti, facciamo colazione e poi portiamo fuori il cane. Camminiamo nelle strade in mezzo alla gente. Poi mangiamo, parliamo, lavoriamo, caghiamo, abbracciamo, litighiamo, scopiamo, e dormiamo. Queste sono le nostre vite. Abbiamo la pretesa di pensare che ognuno abbia la sua, e che somigli a un comodo cappotto che viene posto sulle nostre spalle.
Vediamo in televisione che mutilano i bambini e bombardono persone come noi. Sappiamo, come dice il Colonnello Kurtz, che “c’è l’orrore”. Lo sentiamo sotto la nostra pelle, a volte.
Nella maggior parte dei casi facciamo finta di nulla e compriamo i regali a Natale.
Per noi tutto è visibile, semplicemente perchè non mettiamo a fuoco l’invisibile. A volte, noi siamo vittime che hanno vissuto momenti duri e difficili, congelando le nostre anime rimaste immutate da anni. E viviamo tutta la vita così, danneggiati.
Ci illudiamo di risolvere le cose con la psicoanalisi, o con la religione, o con il misticismo, ma sono solamente fughe da una landa brulla e deserta dove non brilla mai il sole.
Sono anni che leggete i miei deliri su film, serie televisive, libri, ma finalmente ho visto qualcosa che viene da qualche altra parte, da un luogo separato, parallelo, buio di giorno e illuminato di notte.
Questo perchè a Roma, più precisamente a Tor Bella Monaca nel 1988, sono nati due gemelli: Damiano e Fabio D’Innocenzo. Poeti, fotografi, sceneggiatori, registi, e cittadini del mondo reale che noi non vediamo. Siccome loro conoscono il reale, producono arte che ha le radici nel substrato umano che noi ci adopriamo a mantenere ai confini delle nostre belle vite.
Dopo libri e film (pluripremiati), hanno messo mano a una serie televisiva che non ha nulla in comune con qualunque cosa mai prodotta.
La serie si chiama “Dostoevskij”, e qualche pazzo coraggioso di Sky l’ha prodotta e ha dato a noi l’opportunità di fare questo viaggio dentro il fango. E loro l’hanno girata in 16 millimetri.
Enzo Vitiello è un poliziotto a capo di una squadra che sta cercando un serial killer. Ogni vittima, uccisa in modo diverso e a volte casuale, viene ritrovata sulla scena del delitto con una lettera scritta a mano. Queste lettere, lunghe e complesse, sono le riflessioni dell’omicida sul peculiare momento che va dall’atto dell’uccisione alla perdita della vita della vittima. Cosa si sente quando l’ulimo sguardo si spegne, e l’ultimo respiro esala. Il killer viene chiamato dalla squadra Dostoevskij, e diventa un ossessione per Vitiello.
Le indagini si tramutano in una corsa infinita che si ferma ad ogni vittima. La polizia arriva sempre tardi, aumentando a dismisura la propria delusione. Vitiello è un uomo disturbato e depresso che ha come unica fonte d’amore sua figlia, Ambra, tossicodipendente che odia intimamente il padre in quanto fu abbandonata da lui in giovane età.
Vitiello crea un legame profondo con Dostoevskij. Impara a memoria tutte le sue lettere, e cerca di immedesimarsi nel killer per stanarlo ed arrestarlo in modo da redimere la sua inutilità come uomo e poliziotto.
Noi, ignari spettatori, vediamo tutto questo rappresentato in un mondo di confine, in quei luoghi dove non vogliamo andare. Le case sono brutte e cadenti, i luoghi sono umidi e freddi, le persone sono scostanti e vestite male. Le prese dell’elettricità sono incrostrate, con fili che pendono dal soffitto. Le cucine sono sudice, le finestre sporche, i muri pieni d’umidità, i letti sfatti con lenzuole oleose.
I cani abbaiano legati alle catene, i poliziotti pisciano per strada, il frigorifero è vuoto.
Vitiello quasi impazzisce e inizia un’indagine parallela che lo porterà ad essere cacciato via dall’arma. L’unico suo alleato è il suo superiore e vecchio amico Antonio Bonomolo, che cerca di aiutarlo in tutti i modi.
Enzo decide di andare avanti a modo suo, e senza i vincoli della divisa, entra in una dimensione dove la realtà e il suo dolore creano un humus di sofferenza. Ogni passo che Vitiello fa verso Dostoevskij, insudicia le sue scarpe di fango e sangue.
Vitiello vomita, e vomita. Vomita alla vita, e vomita alla figlia il suo orrore. Per lui conta solamente prendere il killer, a costo di perdere il nulla.
Poi c’è un uomo che mangiando un tramezzino cambia la sua vita.
Poi c`é una penna che scrive, sorretta da una mano rotta e ferita.
E alla fine c`è Vitiello e Dostoevskij.
Avrete capito che sto parlando di qualcosa che mi ha intimamente colpito nella sua cruda bellezza. Questa è una serie che nella maniera più assoluta non assomiglia a nessun’altra. Una perla rara. Fin dalle prime immagini i D’Innocenzo ci guardano e ci fanno firmare un accordo. Sul foglio c`è scritto che il gioco è il loro, che il mondo che ti faranno vedere è quello reale, che tutto quello che vedrai ti sporcherà.
Che dire, ho visto la serie che mi ha ipontizzato. La storia è molto bella e ben raccontata. Inutile dire che gli attori tutti sono bravissimi. Carlotta Gamba è la figlia Ambra, che ci dona un personaggio problematico e pieno di spigoli. Federico Vanni (Antonio Bonomolo) ci regala forse l’unico personaggio che non sia stato ancora danneggiato dagli eventi, e che cerca di far capire che forse la salvezza verrà nella loro capacità di rimanere umani.
Discorso a parte è Filippo Timi. Il suo Enzo Vitiello è recitato con ogni parte del suo corpo, dei suoi vestiti, e dalla sua voce bassa e profonda. Il personaggio non si dimenticherà facilmente, e diventa per questo motivo un tassello importante nella storia. Un faro nel buio, che emette una luce nera nella notte.