Ripley

Il romanzo “The Talente Mr. Ripley” della scrittrice statunitense Patricia Highsmith, che riscosse un grande successo a livello internazionale quando fu pubblicato, ha ispirato almeno tre film, ultimo dei quali del 1999 diretto da Anthony Minghella con Jude Law e Matt Damon come protagonisti. 

Quando Netflix lanciò la serie “Ripley”, molti affrontarono l’idea con scettiscismo, chiedendosi cosa si poteva volere di più dalla storia di Tom Ripley, uno degli psicopatici più famosi della nostra cultura.

Tutti i dubbi furono fugati quando il progetto fu preso in mano da Steven Zaillian, sceneggiatore di film ad altissimo livello come “Schindler’s list” e “The Irishman”. Zaillian, come ogni vero artista, cercò di allargare i suoi orizzonti e nel 2016 si cimentò come regista, sceneggiatore e produttore esecutivo dell’ottima serie “The Night Of”. Grazie alla sua direzione, sceneggiatura e produzione, abbiamo ora una miniserie tra le più belle ed intriganti mai viste.

La storia ruota intorno a Tomas Ripley, piccolo uomo che vive di truffe e piccoli furti, che riesce ad entrare nella vita di Dickie Greenleaf, giovane e ricco nullafacente che vive sulle spalle del padre. Inventandosi una frequentazione ai tempi della scuola, Ripley raggiunge Dickie nel suo soggiorno dorato nel sud d’Italia, e lentamente si stabilisce nella sua vita. La lotta interiore, tra il vero Tom che è una persona inetta, e il Tom pieno di desideri e sogni, fanno corto circuito portando la relazione tra Tom e Dickie verso il dramma.

Nonostante la storia sia conosciuta, vi sono diversi aspetti che fanno assurgere la serie a capolavoro. La principale è la visione di Zaillian che ha creato una serie visivamente epica improntandola sul bianco e nero, grazie alla fotografia di Roger Elswit (oscar per “Il Petroliere”). Tra il neorealismo italiano, e il noir anni ’40, le immagini vengono congelate nel tempo rendendoci uno stile visivo che vive in parallelo con quella del Caravaggio, imbevendo il racconto nella Storia dell’Arte italiana tra Venezia e la costiera amalfitana. La serie è tra le più fotografiche mai fatte, con scorci di luoghi e panorami che portano lo spettatore a perdersi nella loro bellezza. Vedere “Ripley” è come andare ad un museo. Il chiaroscuro a volte contrastato e a volte ammorbidito, simboleggia la lotta interiore di Ripley che vive nella frattura tra verità e menzogna.

Altro aspetto importante è la colonna sonora tempestata di classici musicali italiani degli anni ’60 che spaziano da Mina a Fred Buscaglione, da Nilla Pizzi a Tony Renis.

La miscellanea artistica trova la sua fantastica fusione grazie agli attori tutti che sono veramente all’altezza del compito. La scelta di avere attori italiani come protagonisti dei caratteri del luogo si rileva vincente, dando la sensazione reale di straniamento che hanno gli anglosassoni davanti ad una cultura bella e millenaria. Come vi ho detto gli attori sono tutti bravi, ma il protagonista reso dall’attore scozzese Andrew Scott riesce ad entrare negli anfratti più contorti delle nostre anime. Scott, attore emergente visto in “Fleabag” e “Sherlock”, qui ci rende un’interpretazione indimenticabile regalandoci tutte le sfumature della mente contorta di Ripley. Come ogni grande attore, a Scott bastano a volte un leggero movimento di una mano, o uno sguardo più smarrito, per trasmetterci quello che sta vivendo il protagonista.

Per tutte queste ragioni, la serie “Ripley” diventa un prodotto di nicchia, dove lo spettatore può scegliere di fare un viaggio nella bellezza nei chiaro-scuri dell’arte che sovente corrispondono alle storture della mente umana.

Mettetevi comodi, e fatevi questo viaggio nella bellezza. Merita.

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