Fuori fa freddo, c’è quella pioggerellina che sembra non bagnarti. Entri in un bar elegante, ti siedi vicino alla finestra. Dentro fa caldo, ma non troppo. Mentre ti togli il cappotto ordini un tè. Sei solo. La cameriera, vestita elegantemente, ti porta l’acqua bionda e dei pasticcini. Versi il tè nella tazza, e prendi la tazza come se fosse una coppa per riscaldarti le dita. Sorseggi lentamente la bevanda calda e guardi fuori della finestra. Fermo, immobile.
John May (interpretato da Eddie Marsan) lavora in un ufficio distaccato del comune di Londra. Si occupa delle persone che muoiono senza avere nessuno vicino. Quando arriva la segnalazione, lui entra nelle case dei defunti con il portiere che gli apre la porta e prende ciò che crede possa aiutarlo a trovare qualcuno della famiglia, o un amico, o un conoscente. Se non trova nessuno, scrive un discorso, sceglie un brano musicale, e fa fare il funerale. Nella chiesa; la bara, il prete, e lui.
Lessi una volta un libro, non mi ricordo di chi, che rifletteva su “come sarebbero finite le nostre cose dopo la nostra morte? “. Le giacche nell’armadio, lo spazzolino da denti, i dvd, i libri. Cose che per noi hanno un senso, un motivo. Non parlava della fine pratica, ma di quella esistenziale. Un po’ come quando finisce l’amore tra due persone. Poi un giorno, il Capo Ufficio di John May lo informa che il suo lavoro, troppo lento e dispendioso, va rivisto, e che lui è licenziato. Si occuperà solo dell’ultimo caso, un uomo morto da solo in un appartamento e ritrovato dopo 40 giorni. Come un investigatore May gira l’Inghilterra alla ricerca dei pezzi di vita lasciati dal defunto. Un ex compagna, la figlia che non lo vedeva da decenni, amici di bevuta. Tesse una tela di compassione. Ecco, May è compassionevole nel termine Buddista.
I cani che fanno pet therapy negli ospedali hanno delle caratteristiche specifiche: devono essere molto equilibrati. Questo vuol dire che possono entrare in un ospedale e assorbire il dolore dei malati, le loro vibrazioni negative, ma poi tornano a casa e giocare ricevendo un altro tipo d’amore. Questo rende il loro “lavoro” possibile.
In “Still Life” invece , quando John May finisce il suo lavoro, ritorna a casa solo. La casa è spoglia, senza nulla di vitale. Mangia seduto davanti al muro. Mangia una scatoletta di tonno e una mela. Beve un bicchiere d’acqua preso dal rubinetto. La sera si siede davanti un tavolinetto davanti a un grosso album dove incolla le foto di tutti coloro che, negli anni, lui ha servito. Volti di persone morte sole, forse tristi, forse serene….come lui. Il suo ultimo incarico lo fa con entusiasmo, cercando di convincere tutte le persone incontrate che il morto, come tutti i morti, è degno di rispetto. Durante il suo ultimo incarico trova anche dell’altro, una ventata di colore…forse…un sapore diverso…forse.
Quando morì mio padre io e mia sorella andammo a casa sua. Aprì il cassetto del suo comodino. Vi trovai, tra le tante cose, un piccolo portachiavi di plastica fatto di piccoli cubetti. Su ogni cubetto, di colore rosso, c’erano delle lettere scritte in giallo. C’era scritto Forza Roma. Ho sorriso pensando “chissà perché ”.
Sappiate che Still Life è un film sulla morte, quella cosa che vediamo lontano in televisione quando ci fanno vedere i corpi squarciati in Syria, o che viviamo durante i funerali di vecchi Zii o Zie pensando poi quale saranno i nostri impegni appena finita la cerimonia. Il regista Italiano Uberto Pasolini c’immerge in un lento mondo dove regna la recitazione tipicamente inglese dell’understatment. Uno sguardo, un lieve sorriso, un movimento piccolo. Lentezza quasi meditativa. Il film è strano, poetico, con un finale non proprio originale, ma che non può lasciare indifferenti.
La pioggia ha smesso di cadere. Lasci delle monete sul tavolo, e poi ti alzi rimettendoti il cappotto. Esci per strada usando l’ombrello come un bastone, pensando a quando ne avrai bisogno veramente di uno.
Stranamente hai ancora freddo.