Cari tutti, innanzi tutto che il 2014 porti tutto, ma veramente tutto quello che voi desiderate. Ma tutto veramente!!! Detto questo, durante le feste mi sono sparato svariate pellicole, libri, cibi, e bei posti. Insomma tanta bella roba. L’eroe involontario delle mie vacanze è stato Jake Gyllenhaal, che è il protagonista di due dei quattro film che mi sono visto nell’ultimo periodo.
Il primo è stato l’ottimo “Prisoners”, diretto da Denis Velleneuve e prodotto nel 2013. La storia, molto dura, tratta della sparizione di due bambine durante un pranzo di thanksgiving. Chiedono di uscire un attimo e non tornano più. Un camper viene visto parcheggiato vicino alle case, e da queso indizio inizia subito la caccia all’uomo. Il padre di una delle bambine, un maestoso Hugh Jackman, carpentiere e uomo tutto d’un pezzo, diventa protagonista della ricerca insieme all’investigatore della polizia che è appunto Jake Gyllenhaal. La tensione psicologica sale mentre passano le ore senza che le bambine vengano ritrovate. Da una parte un padre disperato che fa di tutto per cercare il colpevole e farsi dire dove sono le bambine, dall’altra il poliziotto Gyllenhaal che usa la logica e la deduzione per arrivare alla soluzione del dilemma. Il film è girato benissimo e la sceneggiatura è perfetta. La crudezza del momento viene magnificamente espressa da un cast di attori bravissimi, su tutti un Hugh Jackman che a mio parere si meriterebbe senza dubbio l’oscar. La sua performance è di altissimo livello e crea empatia con lo spettatore portandolo sull’altalena delle sue paure. Naturalmente, come ogni buon thriller, ci sono colpi di scena e sorprese, e il finale è veramente originale.
Se Prisoners è duro, “End of Watch” invece è durissimo. La critica statunitense lo ha definito uno dei migliori polizieschi degli ultimi anni. Si tratta della vita di una coppia di poliziotti della LAPD (Los Angeles Police Department), delle loro giornate, dei loro atti eroici, e della merda che si vive nelle grandi città Statunitensi. La coppia è formata da Gyllenhall e un ottimo Michael Peña. La storia non è originalissima, ma il film si fa vedere perché il regista, David Ayer, lo filma in modo egregio. A volte sembra un documentario, a volte sembra preso direttamente dalle camere di sorveglianza sulle macchine della polizia. Si muove nel caldo del giorno, e nel cupo della notte, a volte ci mette in soggettiva dove l’immagine sembra quella di un videogioco. La vita dei poliziotti di LA non deve essere tutte rose e fiori, e i due attori si sono affiancati per 5 mesi ai poliziotti veri per capire di cosa si stesse parlando. Il film come dicevo è duro e realistico, con scene al limite dell’horror, ma purtroppo corrispondono a situazioni realistiche che ci lasciano in finale una sensazione di sgomento. Fatevi coraggio, è un bel passaggio nell’inferno direi.
Una serata al cinema invece mi ha regalato il discusso “La vita segreta di Walter Mitty” di e con Ben Stiller. Tratto da un racconto breve del 1939, il film ci narra la vita di Walter Mitty, editor delle fotografie del periodico “Life” nei tempi in cui la versione cartacea andava a morire per fare posto a quella sul web. Il buon Mitty è un sognatore, e gli effetti speciali (notevoli) ci portano vorticosamente dentro alle sue visioni e ai suoi desideri mai raggiunti. Il fotografo emblema di “Life” è tale Sean O’Connell (Sean Penn) che manda a Mitty i suo scatti che poi vengono lavorati e messi nel giornale. Mentre arriva un nuovo capo dell’azienda che traghetterà il giornale verso la nuova era, lasciando a casa parecchi lavoratori, O’Connell manda un foglio di negativi a Mitty scrivendogli che il negativo nr. 25 dovrebbe essere usato per l’ultima copertina di Life perché è la “quintessenza del Life magazine”. Il problema è che il negativo nr. 25 non c’è, e Mitty raccoglie tutti i piccoli indizi seminati in giro da O’Connell per cercarlo. Schiacciando le sue paure, Mitty s’imbarca a cercare O’Connell per chiedergli dove si trova l’ormai famoso negativo e da qui il film prende una piega ampia e formidabile portandoci in angoli della terra tra gente stralunata ma coerente. Mitty sembra a volte Forrest Gump, ma non ha la sua profondità. Il film si fa vedere soprattutto se non si danno ascolto alle stroncature di critica e stampa. È un film che possono vedere tutti senza grossissime pretese, un po “americaneggiante” ma con alcune scene indimenticabili. La migliore su tutte è quella quando i due finalmente s’incontrano, e Sean Penn ci spiega in poche parole la differenza tra immagine, e IMMAGINE. Scusate, sarà perché amo la fotografia ma l’ho trovato poetico e veritiero.
Last, but not least, ho lasciato il migliore dei quattro. Il passaparola mi ha portato in un cinema piccolo per vedere “La Mafia uccide solo d’estate” di Pierfrancesco Diliberto , meglio conosciuto come PIF (si, ex Iena e ora su MTV). Si racconta la vicenda di Arturo, un bambino Palermitano che vive la sua infanzia e adolescenza cercando l’amore per Flora, sua compagna di classe, e tentando di crescere capendo come funzionano le cose nella vita. Parallelamente alla sua crescita c’è il racconto dei fatti di mafia che ha dovuto subire la città negli anni 80- 90, anni bui per Palermo e soprattutto per l’Italia intera. Il film è prezioso e ben fatto. Da una parte viviamo la crescita e la vita di Arturo, la sua curiosità per il giornalismo, e per una verità che per lui è ancora oscura, dall’altra vediamo…o meglio…rivediamo ciò che faceva la mafia in quegli anni, letta a volte in modo semiserio ma lasciandoci sempre con l’amaro in bocca. La pellicola è notevole e profonda, e si può annoverare sicuramente tra i migliori film dell’anno per ciò che riguarda la produzione italiana. Il senso civico e profondo di “La Mafia uccide solo d’estate” esce prepotentemente nel finale che è bellissimo e toccante. In questo paese dove le speranze si spengono ogni giorno di più, fa bene guardarsi indietro ogni tanto sperando che il futuro riuscirà a fare tesoro del sangue versato.