Marco Presta è come quegli amici che spesso abbiamo la fortuna di avere nella vita. Quello che quando ti vedi a cena con lui catalizza l’attenzione con racconti e battute che ti affascinano. È intelligente e acuto, e pieno di cultura. Basta sentire Presta sulla radio e si capisce. Questi tizi hanno la capacità di vedere anche le cose più emotivamente sconvolgenti con un occhio freddo e distaccato. Questa è la vera ricchezza di un uomo. Nel suo secondo libro, “il piantagrane”, Marco Presta racconta la storia di Giovanni, un uomo comune, gestore di un piccolo vivaio che a sua insaputa ha un dono. Il dono è di fatto “socialmente pericoloso” e per difenderlo dai possibili pericoli “loro” gli mandano un tizio che non dimenticheremo facilmente; il Granchio.
Il libro racconta dunque la storia di questa avventura nuova e particolare che vive Giovanni con l’aiuto del Granchio. Un libro molto divertente che ti trascina piacevolmente in una Roma vera con gente vera. In un suo modo peculiare è un libro profondo con un bellissimo finale. Una delle caratteristiche è la sua sana Romanità. Non parlo della Romanità che troviamo aimè in giro de sti tempi. I pischelli che quando parlano iniziano dicendo “aho”, o la sbruffonaggine, o quelli che guidano le Smart a Roma. Questa non è la Romanità. La Romanità di cui parlo è quella dei nostri genitori, è quella che accoglie e accudisce. È quella generosa di una città che non si scompone perché le ha veramente viste tutte. Dove “sti cazzi” non è menefreghismo ma abilità di vedere le cose da un punto più elevato. Il Piantagrane è pieno zeppo di modi di dire che fanno parte, almeno per me, della mia cultura.
Mio padre, Romano di 7 generazioni, mentre lavorava in Canada incontrò un gentile signore. Iniziarono a parlare e il tizio gli chiese: “ma lei è straniero?”.
Mio padre disse di si. “Greco?” . No. “Turco?”. No. “Italiano? “No. Sono Romano, rispose.