E succede poi che un giorno cammini nei corridoi e un tuo collega ti dice “hei, ho un libro da farti leggere…poi mi dici cosa ne pensi”. E poi lui ti da sto libro, “settanta acrilico trenta lana” di una tale Viola Di Grado, edizioni e/o.
Tu inizi a leggerlo e capisci che spesso i libri ti chiamano, o arrivano al momento giusto, o ti prendono per curiosità. In questo caso questo libro mi ha preso per le palle. Si, per le palle. Viola di Grado ha 23 anni, è di Catania, e se tanto mi da tanto sentiremo parlare di lei: “…camminavo seguendo un tramonto lungo, spalmato sulla strada interna come ketchup”, “uscii sul campo minato di fiori”.
Camelia vive con la madre a Leeds. La madre non parla, o meglio parla ma non parla. Era bella e suonava il flauto poi il dramma e la morte è entrata nella loro famiglia, ed è rimasta così. Così. Sdraiata, senza lavarsi, senza parlare. Camelia la cura e la nutre e cerca di trovare uno spiraglio di luce tra il cielo uggioso nella terra del Bardo. Quando si vive al limite spesso parole come “amore” o “compassione” si mischiano con il fango e la merda. La storia va avanti e ci viene raccontata con metafore e visioni del mondo che colpiscono per la loro profondità e freddezza. Entra un amore per Camelia, entra un lavoro non voluto, entrano altri personaggi in un mondo dove la speranza è un lusso, e dove si ama stare nella sofferenza per la paura di vivere dell’altro. Quanti di noi non respirano per paura e fanno in modo che i bronchi si seccano come mandorli non colti sugli alberi?
Il finale è bello nella sua crudeltà e da un senso alla vita di Camelia, lasciandoci sorpresi e rapiti da questa storia. Ti trascina talmente tanto che le ultime pagine ti legano a loro in modo magistrale.
E ti lasciano in silenzio…”come un corpo morto che cade da una finestra”.